Dietro il mio incontro con Simone Pellegrini c’è in assoluto la mera casualità. Un po’ come quando sei al posto giusto nel momento giusto. Casualmente vedo un’immagine di un suo lavoro, dal quale vengo immediatamente colpita, tanto da contattarlo cinque minuti dopo e incontrarlo il giorno successivo a King’s Cross Sant Pancars station qui a Londra. Lui, soltanto di passaggio. Venuto per una sua esposizione alla James Freeman gallery. La mia immaginazione mi porta a pensare, tenendo conto del luogo e della dinamica dell’incontro, ad un titolo, probabilmente per la futura stesura di un libro: “I viandanti”.
Seduti su un tavolino esterno di un bar della stazione internazionale di King’s Kross, mi ritrovo nel mezzo di un via vai di gente ed io e lui tranquillamente seduti nel mezzo. In realtà, per me -e penso anche per lui-, non c’era nessuno. E’ stato l’inizio di una conversazione ampia, diversa dalla canonica aspettativa dell’intervista con domande.
Ho avuto il piacere di conoscere un artista singolare, sia come individuo che come artista. Simone Pellegrini è un artista schivo e profondo, colto e selvaggio. Il suo lavoro è una costante ricerca del perché, analisi e domande costellano il suo animo. Ogni singola opera, a mio modesto parere, diviene una narrazione a se stante, ma indispensabile tassello per costruire l’intero lavoro nella sua pienezza e complessità. Esegue i suoi lavori su carta, oggetto anch’essa di varie lavorazioni. Guardando con attenzione il suo lavoro ho pensato ai graffiti lasciati dai primitivi nelle loro caverne, primi segni grafici e se vogliamo di arte, per lasciare testimonianza di se e del loro passaggio, utile a noi posteri per ricostruire l’intera fase storica e testimonianza da dove veniamo. Dal tratto deciso e passionario, Pellegrini stampa su carta le sue emozioni e il suo sapere, abbattendo la temporalità della narrazione.
Ho cercato di ricostruire tutta la nostra conversazione.
Leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara a dar senso alla immensità delle cose che sono accadute e accadono nel mondo reale. Leggendo romanzi sfuggiamo all’angoscia che ci coglie quando cerchiamo di dire qualcosa di vero sul mondo reale. Questa è la funzione terapeutica della narrativa e la ragione per cui gli uomini, dagli inizi dell’umanità, raccontano storie. Che è poi la funzione dei miti: dar forma al disordine dell’esperienza (Umberto Eco)
Non so perché quando vedo le tue opere mi viene in mente questo passo. Ti ci ritrovi?
Di fronte ad una terra su cui debba albeggiare un mondo (qui è Heidegger) si dispone una urgenza e questa urgenza è quella di una esistenza che nel tentativo di preservare se stessa assume su di sé il carattere che le sue azioni le procurano fino a esaltarsi nel cuore dell’essere. Ora, cosa dire se non che si è dato da sempre il caso in cui noi ci accaniamo su un oggetto fuor di bisogno, nella sospensione del godimento (che è come fruscio sulla ruota ma in caduta infrequente) con il fine recondito di riconfigurare il soggetto? Cosa aggiungere qui, ovvero sul punto in cui si staglia una singolarità stonata,se non lo stesso turbamento al contorno che qui essa determina?
La narrazione e il suo rovescio quindi, finisce per tradire la promessa del principio effettuandosi non più in quanto processo fondante ma ostracizzando l’essere mentre il suo lascito sospetto rimane circolante, oltre che di pertinenza della comunità.
Il colore prevalente nei tuoi lavori è il rosso: Eros e Thanatos?
Qui non distinguo; il rosso è una eccedenza, un’epistassi, una soluzione di riassetto, un locale venir meno di un sistema che esubera la periferia. È onda che vaga nella materia scura, flusso che ci reclama nella notte, ristabilendo la distanza di ogni desiderio nella volta dell’essere.
Due termini quelli che mi indichi che si condensano nel colpo in canna di quella pistola che Freud teneva nel cassetto della sua scrivania.
La tua linea del tempo; il significato e valore che tu ne dai. Plotino, filosofo greco, parlava di eterno ritorno…
Il tempo non somiglia ad alcuna teoria del tempo. Si dispone inesorabile nella flocculazione e cronicizzazione della differenza; per il resto è un abisso pacato in cui non si dà pensiero, senza l’increspatura di questo fare commovente.
Nei tuoi lavori ho riscontrato una costante: reale e virtuale, o meglio, arcaico e onirico…
La superficie in cui si consuma l’inconsumabile è un domino indistinto in cui si succedono piccole estasi materiali. Un luogo definitivamente entropico in cui inscenare alcune instabilità formali.
Se questo apparire è vero allora niente è più vero per via di un digradare spontaneo, di una lieve rarefazione percepibile in ogni smagliatura. Perché dico questo? Per via del fatto che su questa soglia ogni fingimento s’invera ed emerge solo per trascinare sul fondo ogni distinzione e categoria di riferimento.
Inferno, Purgatorio o Paradiso. Quale dei canti danteschi preferisci e perché? E tu, hai mai pensato di trovarti in una “selva oscura”?
Mi permetto di sottrarmi alla allegoria e di allungare avanzando nel corpo della selva. Ci sono luoghi consumati, per troppa frequentazione, luoghi in cui le parole cercano un eco silente. La Divina Commedia è come Santa Croce, insidiata a oltranza dall’umano mentre certa sacralità andrebbe disabitata, taciuta fino alla sua riscoperta.
Che cosa accade a questa architettura? Che essa smette di smateriare e cosifica perché ci sono cose che tengono non per una dinamica o statica ma per un atto di fede ormai consunto.
Lo stesso dicasi per un testo che si squaderna in immagini, che è profondità e altezza senza superfici mentre proprio queste insistono nel confinare il mondo senza risolverlo.
Decisamente la selva è metafora e al tempo stesso non lo è, pertanto rappresenta un problema maggiore trascurato, ridotto a trampolino della proiezione. Diciamo pure che nell’inizio noi siamo nel segreto di una superficie che piega e la visione fuga un corpo che si riavrà proprio nel luogo del suo mancamento.
I tuoi soggetti, sono esseri amorfi privi di individualità. E’ una negazione o uno smembramento?
Sono corpi che hanno moltiplicato e frammentato, corpi potenti e nolenti, corpi paolini, su campi in cui gli effetti sono prosciolti dalle cause e tutto vibra come in un contagio. Esistenze che si rinnovano retrocedendo dall’essere caduto in contraddizione tutti presi da una ebbrezza entropica.
A vedere i tuoi lavori, mi sembra il frutto di un’esecuzione lunga, fatta di fasi e articolata. Parliamone…
Era è un dispositivo mancato in cui nulla viene definitivamente sancito. Essa vive del suo processo, nasce se si usa la debita violenza a quanto la anticipa e vive nell’abbandono. Tutto ciò che noi definiamo poetico è, fuor di romanticismo, una crudeltà reiterata.
“Nocturne” è il titolo della tua ultima mostra alla James Freeman Gallery a Londra. Quanto c’è di notturno in te?
qualsiasi cosa sia sotto questo cielo, nella sua evidenza, procede dalla notte, di cui così poco sappiamo e che molto presagisce della vita. Così è per ogni evidenza, per ogni fenomeno in emersione, che avanza di impressione in impressione.
Che cos’è per te l’arte?
L’arte è soprattutto un vuoto, un esercizio di sottrazione, una corda tesa, una regressione senza precedenti, grave fino al midollo, senza complici e forse, raro ma possibile, il lusso di un coro.
Eppure…si dà il caso che se ne sia fatto un circolo, una questione comune, un prurito diffuso, una ribalta condivisa, un’ammiccamento, un’ideuccia a cavalluccio, un parco giochi, una commedia di imitazioni e rifrazioni. Insomma una brutta storia.
I tuoi progetti futuri?
Ostrakon è il titolo della personale che si terrà ad autunno inoltrato presso la Galleria Cardelli&Fontana
24 Marzo 2018: i suoi progetti futuri sono andati a buon fine; Ostrakon si terrà nella galleria Cardelli & Fontana a partire dal 24 Marzo fino al 5 maggio 2018
Secondo Stephen Hawking “Nella teoria della relatività non esiste un unico tempo assoluto, ma ogni singolo individuo ha una propria personale misura del tempo che dipende da dove si trova e da come si sta muovendo”