La mia conoscenza con Alan Maglio risale a svariati mesi fa, grazie ad amico comune. Sono state diverse le occasioni nelle quali abbiamo avuto di rincontrarci, ma l’oggetto delle nostre conversazioni è stato sempre
uno; la musica, comune passione. Non gli ho mai chiesto di farmi vedere le sue foto, non per disinteresse, forse semplicemente perché non era il momento, ne per me ne per lui. Soltanto una settimana fa guardo il
suo sito e le sue foto hanno destato il mio interesse.
Sono immagini inconsuete per l’oggetto di ricerca, per me motivo d’immediata riflessione. A riflettere su ciò che siamo portati solitamente ad osservare. A guardare e a non vedere, ed inevitabilmente mi è venuta
in mente una citazione di Nadar (storico fotografo francese) che recita: “Non esiste la fotografia artistica.
Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare”.
Il suo lavoro mi ha colpito per la semplicità, ma non per questo mancante di profondità, con cui ha saputo evidenziare persone e luoghi nella loro reciproca coesistenza ed influenza. Ha avuto la capacità di mettere
in risalto dei microcosmi in un macrocosmo di realtà e di vite. Ecco, nelle sue foto ho visto la vita nella sua essenza e nella sua verità, priva di inutili sovrastrutture estetiche. Per mia coerenza professionale e di vita
ho deciso di dargli voce.
Lo incontro, per parlarne, in un bar di Porta Genova qui a Milano.
Ve lo presento: Alan Maglio
Quando hai iniziato e perché?
Ho iniziato nei primi anni duemila, dopo i miei vent’anni. Inizialmente, a me non interessava affatto la fotografia nello specifico, ma sono stato sempre un appassionato d’arte. Ho studiato grafica e mi sono
approcciato alla fotografia per caso, ritenendola un elemento importante della grafica. Solo quando mi ci sono ritrovato ho capito che volevo fare il fotografo e solo mentre studiavo la materia, mi si è sviluppato un
amore di pancia. Nel momento in cui ho avuto uno studio tutto mio, ho iniziato un’analisi specifica sulle persone di alcune comunità. Ciò che avevo analizzato nei luoghi di appartenenza, li ho voluti vedere nel loro specifico
personale, isolando degli elementi. Il racconto della figura umana ha un racconto millenario, storico e di esigenza verso il mondo. Non mi piace fotografare solo ciò che è bello. Nel mio lavoro metto in evidenza come sono fatti i luoghi, come sono fatte le persone ed infine come
interagiscono le persone con i luoghi. L’analisi alla quale miro è l’uomo. Sono partito dall’essere umano, ed ha sviluppato interesse in me, soprattutto mettere in relazione l’uomo con gli altri e l’ambiente. L’identità
propria di ogni singolo essere umano, ciò che lo caratterizza e la comunità nella quale vive, attraverso la mia identità in relazione con la collettività e lo spazio.
Hai fatto lavori pertinenti a questo?
Sì, in Galizia, Tokyo, Istanbul. Mi sono dedicato ad analizzare le realtà umane autoctone di ogni luogo visitato da me. Esisti in relazione alla comunità, sia nella fase diurna che in quelle notturna che, a differenza
della prima, la trovo più intima e onirica.
Parlami della tua serie “Milano Centrale”?
E’ stato un lavoro fatto dieci anni fa mentre stavo girando un film. Da lì, sono nati una serie di ritratti fotografici derivanti dal contatto diretto con la comunità e le persone. A me interessava osservare le comunità africane che vivono nel contesto della stazione Centrale di Milano. Ho ritrovato in loro il concetto di “polis” greca. Ossia, le persone si esponevano nello spazio esterno e di condivisione della vita sociale.
L’importanza della condivisione all’esterno, per strada, di determinate dinamiche che sono; private, personali e familiari.
Per esempio: nel film una donna racconta dell’esperienza di avere un ristorante e rievocava ciò che aveva avuto anche sua madre, ma non possedeva più un luogo fisico dove poter averlo avere, ma lo faceva per
strada, vendendo la roba per strada e tra la gente. E’ questo che io voglio analizzare, la relazione tra se e lo spazio. Ed è tutto molto surreale! Ho fatto delle foto, dove ho analizzato le persone e ne ho restituito lo
sguardo delle stesse con una propria vita, un proprio stile di vita in uno specifico momento di vita, che in dieci anni sono radicalmente cambiati. Ho analizzato e visto una comunità vera e propria nella mia città.
Hai avuto modo di proiettare il film?
E’ uscito al Festival del Cinema Africano di Milano, successivamente in altri Festival sia in Italia che in Europa e nel circuito universitario degli Stati Uniti.
Quanto c’è di tuo?
C’è tantissimo di mio, non credo nell’idea di oggettività. Un autore sceglie sempre come guardare una cosa e cosa guardare, nel momento in cui il soggetto si offre alla rappresentazione di se. Ecco, a me interessa
lavorare dentro quel livello di complicità che si crea tra chi sa di essere raccontato e offre una rappresentazione di se e l’autore, che da inevitabilmente un’impronta personale al racconto dell’altro. C’è
un evitabile scambio che comprende anche l’equivoco, lo svelamento e l’intimità.
Progetti futuri?
Sto cercando di mettere insieme una serie che ho scattato in Spagna e Portogallo, fatta nelle zone più rurali. A differenza degli altri lavori, c’è molto poco la figura umana analizzo solo gli spazi. Ho progetti all’estero,
ma per scaramanzia preferisco non parlarne…
Alla fine della nostra conversazione mi viene in mente una frase, molto significativa per me è di Alfred Eisenstaedt, che dice: “L’importante non è la fotocamera, ma l’occhio”.
Il mio personale in bocca al lupo ad Alan, affinchè la sua ricerca e il suo lavoro siano in continua ascesa, glielo faccio con una canzone; It’s no good dei Depeche Mode:
Ringrazio Alan Maglio per la sua disponibilità e apertura.
Good luck!
A tutti voi, buona lettura, buona visione e buon ascolto!
Bye Bye