
Ho conosciuto Giacomo Vanetti in occasione della Fiera d’Arte Contemporanea, tenutasi quest’anno a Bologna. Per caso, e grazie ad un comune amico. Come, per caso, abbiamo girato per l’esposizione insieme, io e lui. C’è stato da subito una sorta di tacito accordo, io ho parlato con “tutta la fiera” e lui mi seguiva, mentre scattava foto.
In tutta la giornata avremmo scambiato dieci parole. Si era capito subito che non fosse un tipo particolarmente loquace.
Non gli avevo posto, in quell’occasione, delle domande in merito al suo lavoro, non era il momento, non era l’occasione.
Dopo qualche tempo mi ha scritto, dicendomi che avrebbe avuto il piacere di mostrarmi il suo lavoro.
E solo qualche giorno fa, ho avuto tempo e possibilità per contattarlo: ciao Giacomo, a noi! Fissiamo un incontro? Detto fatto. Sono nel suo studio a Varese.

Ha iniziato a mostrarmi le sue foto, il suo lavoro e la sua ricerca. Ne sono rimasta piacevolmente sorpresa.
Le immagini fotografiche di Giacomo Vanetti sono silenziose, ma non per una questione di discrezione, ma per lasciar spazio ad una sottaciuta tempistica musicale.
Bisognerebbe porsi di fronte a queste immagini senza dire niente, chiudere gli occhi e lasciare che il particolare risalga da solo alla coscienza affettiva, solo grazie a un fotogramma.
Giacomo Vanetti nella sua ricerca non rimemora il passato. L’effetto non è quello di restituire ciò che è abolito dal tempo e dalla memoria, ma di attestare ciò che è effettivamente stato. La fotografia di Vanetti non dice ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato. Davanti ad una foto, la coscienza non prende necessariamente la via nostalgica del ricordo, ogni foto prende la via della certezza. Essa è piuttosto un’agitazione interiore, un lavorio, l’indicibile che preme per esprimersi. Le fotografie dimostrano in modo indiscutibile che il viaggio è stato fatto, esse documentano sequenze mentali e immaginative. Attraverso il movimento.
Il lavoro di Giacomo Vanetti è ricercato nel suo voler imprimere tracce d’identità vaganti. Dove casualità ed errore ricercano la poetica, frutto di scarti di pellicola, di “errori”.
Giacomo, da dove ha origine il tuo lavoro e la tua ricerca?
Ho iniziato durante L’Erasmus in Spagna. Lì ho approfondito le tecniche di stampa e il lavoro in camera oscura. Per me, la fotografia è un mezzo per raccontare qualcosa di personale. E’ un lavoro autobiografico.
Che cos’è per te il tempo?
Per me il tempo è uno spazio da indagare.
E’ evidente che sei un fruitore di musica. Quale musica non smetteresti mai di ascoltare?
Il punk e il grunge hanno accompagnato la mia adolescenza. Ultimamente musica elettronica. Di base deve avere un elemento di distorsione.
L’immagine che hai di te nel prossimo futuro?
Distorta!
Vuoi continuare la ricerca in questo senso o hai in mente dei nuovi progetti da presentare?
Ho dei progetti pronti e da valutare, spero dar loro vita.
Chiudo il mio scritto con questo passo di un grande filosofo:
Che l’uomo esteriore sia un’immagine dell’interiore, e il viso, un’espressione e una rivelazione dell’interno carattere è un presupposto in sé abbastanza plausibile, e quindi un buon punto di partenza; confermato com’è dal fatto che la gente è sempre ansiosa di vedere chiunque sia diventato famoso…la fotografia…permette la più completa soddisfazione della nostra curiosità
(Arthur Schopenhauer)
E a tutti voi dedico il “silenzio musicale” delle immagini nella gallery